Giappone e questione nucleare: essere energivori non è più realistico

22.03.2011 22:25

 Il dibattito sul nucleare nel nostro paese in questi giorni post terremoto in Giappone raggiunge vette inimmaginabili. Già chiamarlo dibattito è difficile, perché di fronte a ciò che è accaduto non sono certo solo i comitati e i partiti che hanno promosso il referendum sul nucleare (l’Idv e Sel) a dire che il programma italiano va fermato. Più che un dibattito è un coro.

Perfino osservatori moderatissimi e mai stati neanche in odore di antinuclearismo chiedono tempo per riflettere. Ma il fronte governativo italiano (ed in Francia, anche Sarkozy) si presenta al pubblico con una sicumera invidiabile. Le centrali italiane saranno sicurissime. La sicurezza è il loro primo pensiero, la loro prima preoccupazione.

Già, già. Infatti questo è un paese in cui basta la pioggia ad inghiottire nelle frane paesi interi. E la natura proprio non c’entra niente, c’entra la corruzione, l’avidità, la superficialità e il non governo del territorio. Ma aldilà delle ovvie buone ragioni dei referendari e ambientalisti in generale, quello che davvero colpisce è da una parte il cinismo delle osservazioni e dei commenti nei confronti di ciò che è accaduto, dall’altra il provincialismo di chi come Italia e Francia riportano tutto sempre e solo al proprio minuscolo orticello.

A noi sembra che le conseguenze di ciò che è successo mettano innanzitutto un discussione il paradigma sviluppista. Ci sembra cioè che là dove gli ossservatori si chiedono “ce la farà il Giappone a non far colare a picco il suo Pil?” , forse bisognerebbe chiedersi: ce la farà il Giappone a capire che deve fare alcuni sostanziosi passi indietro nella produzione e consumo di merci? Certo, chiedersi questo vuol dire chiederselo non solo per il Giappone. Se il nucleare, come sembra proprio dimostrare questo catastrofico evento, è destinato – almeno fino a che la ricerca non avrà “imparato” la fusione fredda – ad uscire dai giochi, e le fonti energetiche fossili sono in via d’esaurimento, su cosa si dovrebbe basare il paradigma sviluppista?

C’è molta materia di riflessione di fronte alle immagini giapponesi, molte domande, molta incertezza. Domande filosofiche sì, sulla natura umana e sul nostro destino di specie. Ma mai come adesso la filosofia è fatta di carne ed è proprio la nostra, non quella dei nostri pronipoti.

La scorsa settimana su Gli Altri Serge Latouche parlava della crisi e diceva che questa crisi economica è di vecchia data e che, soprattutto, è crisi di civiltà. Tra le tante cose di cui ha parlato, non riportate per ovvi motivi di spazio, c’era la distinzione tra progresso e sviluppo. Se senza nucleare non c’è crescita economica possibile in un mondo in cui le fonti energetiche fossili si stanno esaurendo, possiamo provare a vedere di progredire senza svilupparci più? Si può progredire nell’arte delle relazioni umane, in quella di farsi bastare di meno, nella capacità di vivere diversamente dall’attuale corse al produrre e consumare senza soluzione di continuità (e senza reali motivi per farlo)? Possiamo provare a immaginare una società che consumi molto, molto meno, dove si lavori tutti e meno, dove non si sia costretti ad accettare un rischio come quello nucleare attuale in nome di qualcosa che sembra non renderci affatto più felici e progrediti, un alto Pil?

Latouche la sua società della decrescita la definisce una utopia concreta. Potrebbe perfino diventare una necessità concreta, ora. Ecco perché il referendum sul nucleare, come del resto quello sull’acqua, sono una grande occasione. Non solo per votare sì, abrogando così il piano nucleare italiano. Ma per cominciare a parlare di quel futuro nel quale intravedere il progresso. Futuro che per ora non è all’orizzonte ma che potrebbe esserci drammaticamente sottratto di qui a poco. Pochissimo tempo.