Atenei, una brutta riforma, ma manca l’alternativa
Atenei, una brutta riforma, ma manca l’alternativa
Mentre aspettiamo che la Camera approvi (o respinga!) la riforma Gelmini, anticipiamo questo articolo che uscirà su Gli Altri di venerdì prossimo…
***
Alberto Abruzzese
Tra i fumi di tanto rumore media-politico, cosa sta bollendo in pentola per il destino precario dell’università italiana? In sostanza c’è il solito pollo di sempre, e ai polli riesce difficile essere di sinistra o di destra, dunque trattasi dello stesso pollo messo a cuocere da qualsiasi governo della prima e della seconda nostra repubblica. Ha abbastanza ragione chi scrive che tutti i partiti e tutte le istituzioni italiane vorrebbero vedere arrivare in porto la Legge Gelmini. Ciascuno ha i suoi motivi e non tutti o quasi nessuno è buono: già in altra occasione ho sostenuto che il “merito” e la “buona amministrazione” sono davvero balle belle e buone. Come si fa a parlare di merito in una società profondamente ingiusta, gestita da ceti dirigenti senza merito alcuno, e senza sapere cosa oggi possano e debbano essere ricerca e formazione, senza ammettere che molti contenuti e strumenti disciplinari e professionali sono ormai decotti e inutilizzabili, senza confessare che a stabilire il merito accademico, parimenti sventolato dal fronte gelminiano e antigelminiano, sarebbero gli stessi baroni che lo hanno tradito oppure sarebbero i “nuovi” docenti che essi hanno selezionato, filtrato, clonato? Come si fa a moralizzare la spesa universitaria senza ridefinire quantità e qualità del denaro che ci si impegna a investire sulle nuove generazioni? Senza riconoscere che la priorità dell’istruzione non è un pio proposito ma la condizione primaria dello sviluppo di ogni settore della vita nazionale in termini di economia-politica quale essa sia?
Così, ad avere un senso – abbastanza straccione ma cosa ci si può attendere da forme di pensiero e di azione sempre più povere di coscienza civile e professionale? – restano coloro che si dicono disposti ad accettare e persino pretendere il varo di questa non-legge. La attendono in nome forse soltanto della disperazione (oltre alle necessità corporative di molti, oneste e disoneste che esse siano), ma certamente in virtù di un ragionamento che fa loro da scudo e tuttavia è difficile scoraggiare: se saltasse, insieme alla legge, anche il governo e magari ne venisse fuori un nuovo governo obbligato a formulare una nuova legge Pinco Palla, il disastro resterebbe bloccato sul tragico limite di oggi per mesi o forse per anni. Ma se per assurdo si trattasse anche di un solo giorno, in ogni caso il futuro immediato e a medio termine dell’università non sarebbe di molto diverso da nostro vergognoso passato e presente. Perché? Semplice: perché a scrivere le leggi di una realtà come quella universitaria non sono i singoli ma un grumo di negoziatori e mediatori, un grumo vecchio e interessato, cieco e stanco, pretenzioso e ignorante, magari persino giovane ma, dietro il suo efficientismo, tanto cosmopolita e globalista da essere votato a perpetuare la cecità del tempo moderno, dei suoi modelli occidentali, vecchi e nuovi. E allora – passando da una vivanda universitaria ormai fredda ad una appena appena riscaldata – questo brodo misto di apparati e imprese, conventicole intellettuali e professionali, funzionari, rappresentanze sindacali e corporative, burocrati, politici e professori resterebbe il medesimo; “riscriverebbe” se stesso un’altra volta.
Per un articolo di giornale, se si vuole essere efficaci e radicali nel giudizio, a volte una immagine è meglio di un titolo. Bersani – sigaro in bocca e sorriso dell’avvenire – che s’arrampica sui tetti della protesta studentesca, ebbro della felicità del giusto. Eccola l’immagine azzeccata! Quella che dice tutto. Il segretario del partito che più dovrebbe comunicare l’immagine di una opposizione vincente e ancor più di una capacità di egemonia reale sui conflitti sociali fa da testimonial ad uno dei più fasulli scontri politici di questa fasulla crisi di poteri dentro la crisi di governo che sta dentro la crisi della politica. Mentre tra le sue stesse fila così come tra quelle dei suoi alleati e dei suoi nemici si lavora per l’approvazione della legge o – ancor più cinicamente – per sacrificarla al gioco di massacro parlamentare e elettorale, ecco che gli onesti come Bersani saltano in prima pagina (ma chi li sta consigliando!?). Lo fanno alla cieca, tanto perché gli dicono che così guadagnano voti, ma lo fanno senza avere minimamente verificato se ci sia qualcosa di “fondante” e “vincente” in questi studenti e sindacati (ecco il sigaro! Anche Bertinotti, buona pasta di militante e parlamentare, quando parlava di scuola e università faceva soltanto della mediocre ideologia democratica, demagogica e populista). Senza verificare se in questi anni siano mai arrivati a formulare un progetto universitario degno di questo nome. Certo di fronte a loro c’è stato e perdura il vuoto, ma non per questo è ammesso dare voce e gloria al vuoto. Certo, senza soldi non si fanno vere riforme e dunque si è costretti a agire lo scontro con piccole e semplici operazioni correttive, ma non per questo si doveva sperare di poterlo fare ricorrendo ai peggiori stereotipi, quegli stessi che ci hanno portato al disastro; tanto meno senza sapere vedere cosa oggi davvero serva ai fini di un effettivo, sostanziale mutamento.
Invece di salire sui tetti, sarebbe stato assai meglio scendere silenziosamente in piazza, sedersi educatamente a terra e iniziare un digiuno a oltranza per ottenere una sola cosa: denaro da poter investire bene: in modo giusto e costruttivo. Lasciar perdere la legge Gelmini e ogni altra legge passata o futura, specchietti per le allodole, dannose ad approvarle così come a farle saltare all’aria. In piazza – muti dal momento che il linguaggio politico è ormai fuffa – dovrebbero raccogliersi non solo famiglie e giovani ma tutti gli attori sociali che vivono il bisogno di una economia della vita, del lavoro, della produzione, dell’organizzazione e dell’innovazione all’altezza della società complessa in cui siamo immersi. E dovrebbero avere un solo slogan: vogliamo che gli investimenti economici sull’istruzione siano portati – magari con la gradualità che la crisi economica mondiale richiede – al livello delle altre nazioni che pretendiamo di scimmiottare. Vogliamo che il denaro stanziato sia tenuto in cassa e amministrato da commissioni di gestione costituite da soggetti sociali non pregiudicati ovvero non vincolati ai centri di potere o semplicemente alle persone (ministeriali, politici, baroni e membri della teppaglia scientifica e didattica che hanno reclutato, dirigenti di imprese ottuse, sclerotizzate o falsamente innovative) che dentro e fuori dell’università si sono fatte responsabili dei suoi sprechi, soprusi e deviazioni. Come sempre attendo obiezioni e domande.